The view from Zacheta

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Włodzimierz Pawlak - Poles form the national flag

lunedì 22 settembre 2008

Libertè Egalitè Compètition

Questo pezzo è stato scritto di ritorno a Vancouver nel Maggio 2006, dopo otto mesi in Canada e tre settimane in Europa. La versione originale la potete trovare su Gheminga. Mi sembrava giusto ripubblicarlo prima che il quarantennale del '68 finisse, così come la crisi di cui sotto. Un ricordo particolare non può non andare a Violina che nonostante le condizioni pietose in cui versavo dopo due semestri di graduate studies (chi ha studiato seriamente in Nord America sa) mi ha accompagnato in giro per Parigi per due settimane come se niente fosse e mi è sempre stata accanto, facendomi scoprire - come al solito - tutta la bellezza che solitamente mi sfugge.

Sarà stato il ritorno in Europa dove tutto è così vecchio e pesante. Sarà che dopo aver visto (gl)i Champes Elysèe con tutte quelle bandiere francesi tra alberi e negozi e la libreria della Sorbona murata e in ricostruzione e le facce della gente per strada, di quelli che hanno detto no alla costituzione europea, ma anche degli unici coetanei che riescono ancora a scendere in strada e protestare per qualcosa (e vincere)... Sarà che dove sono stati detenuti il re Luigi di turno e, poco dopo, Robespierre, prima di essere giustiziati, ci ho visto una mostra fotografica sulla Senna. Sarà che è un po’ che ho questo pensiero per la testa e mi chiedo: ma perché non sono nato negli anni ’50? C’era Elvis, che sarei stato troppo piccolo per apprezzare, ma c’era. E poi sarei cresciuto al tempo in cui lo showbiz, al limite, erano Beatles e Rolling Stones, con John Lennon che convive con Yoko Ono e scrive Imagine, con il periodo d’oro del rock‘n’roll. Magari sarei anche riuscito a vedere i Pink Floyd quando il genio, prima di impazzire e scomparire, era ancora tra loro sul palco. Avrei capito cosa vuol dire la parola punk e Jim Morrison non sarebbe stato un sosia di Val Kilmer. Avrei potuto passare giornate nei parchi con persone convinte che pace e amore siano due cose importanti, magari fumando un po’ di ganja o mangiando funghetti (senza eskimo per rispetto del profeta degli appennini). Gridare spensierato a vent’anni che le vie da percorrere per un mondo migliore passavano per forza attraverso la giustizia sociale (e cioè che anche l’operaio vuole il figlio dottore), che voglio tutto e subito. E la cosa bella è che ci avrei creduto. Avrei creduto in tutto questo. Sarei vissuto nell’epoca in cui l’immaginario collettivo del migliore dei mondi possibili non era di molto lontano da quello dei cartoni animati, dove con idee semplici si rispondeva a problemi complessi. Con buona pace del materialismo storico e della critica marxista (interessante contraltare di tutta questa leggerezza, peccato che si sarebbe rivelata totalmente sbagliata come la storia meglio di chiunque altro ha inesorabilmente dimostrato). Ed invece sono nato negli anni ’80, con trenta anni di ritardo su quel mondo in cui, nonostante tutto, mi avevano preparato a vivere. Libertè, Egalitè, Compètition. Uno slogan postmoderno, non poteva essere altrimenti. Suona piuttosto bene, ma è difficile da gridare. In tre parole quel tanto famigerato e frainteso ideale che è anche l’unica vera novità concettuale della mia generazione: il mercato. Chi mi sa spiegare perché mi han regalato tre volte "Never Mind" e mai "The dark side of the moon"?

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